Pippo Lacava ha fotografato di tutto

Artista: 
Testo Ridotto: 

Nella monografia dedicata al fotografo messinese Pippo La Cava, Geri Villaroel, curatore del volume, descrive così l’attitudine e il lavoro del fotoreporter: “La sua capacità di essere al posto giusto al momento giusto e di sapere conciliare il pezzo giornalistico con la puntualità dell’immagine, ebbe modo di esplicitarlo in parecchie occasioni assieme all’arte fotografica che dimostrò nell’arco della sua laboriosa attività”[1]. Villaroel, con il consueto stile ironico e graffiante, racconta tutta una serie d’importanti, o soltanto curiosi, avvenimenti immortalati da La Cava: le monete borboniche rinvenute a Maregrosso e poi vendute in nero a piazza Cairoli, l’uscita dal carcere del detenuto Spanò, detenuto, da innocente, per venticinque anni, i moti di Reggio, il terremoto di Gibellina etc.

 


[1] Il Vagabondo delle stelle. Cinquant’anni d’immagini di Pippo La Cava fotoreporter, a cura di Geri Villaroel, Grafo Ed.,  Messina, 2012, p. 13. 

 

Testo Medio: 

Nella monografia dedicata al fotografo messinese Pippo La Cava, Geri Villaroel, curatore del volume, descrive così l’attitudine e il lavoro del fotoreporter: “La sua capacità di essere al posto giusto al momento giusto e di sapere conciliare il pezzo giornalistico con la puntualità dell’immagine, ebbe modo di esplicitarlo in parecchie occasioni assieme all’arte fotografica che dimostrò nell’arco della sua laboriosa attività”[1]. Villaroel, con il consueto stile ironico e graffiante, racconta tutta una serie d’importanti, o soltanto curiosi, avvenimenti immortalati da La Cava: le monete borboniche rinvenute a Maregrosso e poi vendute in nero a piazza Cairoli, l’uscita dal carcere del detenuto Spanò, detenuto, da innocente, per venticinque anni, i moti di Reggio, il terremoto di Gibellina etc. Al servizio della Gazzetta del Sud e di varie agenzie di stampa nazionali, Pippo La Cava ha fotografato di tutto. Dai grandi uomini della politica italiana, agli ultimi, i variopinti personaggi della storia urbana cittadina. Il suo sguardo spesso più complice che compassionevole, è evidente nella serie di scatti realizzata nelle baraccopoli della città. Insieme al pitale gettato nella pubblica latrina dalla donna, emblema di una città divisa e incapace di progettare uno sviluppo equo e solidale per i suoi cittadini, colpiscono gli scatti dei bimbi dei sobborghi, “carusi” dall’aria monella e il grande sorriso, nonostante lo scempio dell’ambiente in cui sono costretti a vivere. Lamiere, panni stesi, bagnarole, palloni da calcio e sbaraccamenti, raccontano l’altra città, quella lontana dalle stelle del cinema all’Irrera a mare, lontana dai tavoli dei congressi politici. La fotografia di La Cava, pur debitrice delle necessità della cronaca, appare oggi come un racconto multiforme e policentrico, profondamente realista, totalmente aderente all’identità cittadina. Uno sguardo senza giudizio, che tuttavia non rifugge di affrontare circostanze spigolose, di essere testimone di fatti inusuali, come lo “sceicco” di Sant’Agata Militello che viveva con diverse mogli, o il domatore che si fa baciare della leonessa, o il cannone inglese del villaggio pace caricato di angurie. Ne viene fuori un mosaico vivido di scorci urbani, personaggi, situazioni e tensioni intellettuali dirette, senza fronzoli, a volte addirittura spicce, che sembrano il corrispettivo di quella lingua di marciapiedi, bar, redazioni e commissariati che fotografi come La Cava praticano ogni giorno, fino a tarda notte.

 


[1] Il Vagabondo delle stelle. Cinquant’anni d’immagini di Pippo La Cava fotoreporter, a cura di Geri Villaroel, Grafo Ed.,  Messina, 2012, p. 13. 

 

Testo Esteso: 

Nella monografia dedicata al fotografo messinese Pippo La Cava, Geri Villaroel, curatore del volume, descrive così l’attitudine e il lavoro del fotoreporter: “La sua capacità di essere al posto giusto al momento giusto e di sapere conciliare il pezzo giornalistico con la puntualità dell’immagine, ebbe modo di esplicitarlo in parecchie occasioni assieme all’arte fotografica che dimostrò nell’arco della sua laboriosa attività”[1]. Villaroel, con il consueto stile ironico e graffiante, racconta tutta una serie d’importanti, o soltanto curiosi, avvenimenti immortalati da La Cava: le monete borboniche rinvenute a Maregrosso e poi vendute in nero a piazza Cairoli, l’uscita dal carcere del detenuto Spanò, detenuto, da innocente, per venticinque anni, i moti di Reggio, il terremoto di Gibellina etc. Al servizio della Gazzetta del Sud e di varie agenzie di stampa nazionali, Pippo La Cava ha fotografato di tutto. Dai grandi uomini della politica italiana, agli ultimi, i variopinti personaggi della storia urbana cittadina. Il suo sguardo spesso più complice che compassionevole, è evidente nella serie di scatti realizzata nelle baraccopoli della città. Insieme al pitale gettato nella pubblica latrina dalla donna, emblema di una città divisa e incapace di progettare uno sviluppo equo e solidale per i suoi cittadini, colpiscono gli scatti dei bimbi dei sobborghi, “carusi” dall’aria monella e il grande sorriso, nonostante lo scempio dell’ambiente in cui sono costretti a vivere. Lamiere, panni stesi, bagnarole, palloni da calcio e sbaraccamenti, raccontano l’altra città, quella lontana dalle stelle del cinema all’Irrera a mare, lontana dai tavoli dei congressi politici. La fotografia di La Cava, pur debitrice delle necessità della cronaca, appare oggi come un racconto multiforme e policentrico, profondamente realista, totalmente aderente all’identità cittadina. Uno sguardo senza giudizio, che tuttavia non rifugge di affrontare circostanze spigolose, di essere testimone di fatti inusuali, come lo “sceicco” di Sant’Agata Militello che viveva con diverse mogli, o il domatore che si fa baciare della leonessa, o il cannone inglese del villaggio pace caricato di angurie. Ne viene fuori un mosaico vivido di scorci urbani, personaggi, situazioni e tensioni intellettuali dirette, senza fronzoli, a volte addirittura spicce, che sembrano il corrispettivo di quella lingua di marciapiedi, bar, redazioni e commissariati che fotografi come La Cava praticano ogni giorno, fino a tarda notte.  Questo immenso lavoro, composto di decine di migliaia di scatti costituisce una prova documentaria della difficile transizione della città, dal suo rampante approccio alla modernità degli anni ’50 fino alle tensioni irrisolte e sempre più pressanti che alla fine del XX secolo troveranno piena manifestazione in una città commissariata, a fasi alterne, per più di un decennio.  In questo contesto, la fotografia riveste un ruolo centrale. Prima dell’avvento dell’era iconica degli smartphone e la possibilità ecumenicamente diffusa di produrre immagini, la fotografia di reportage è stata l’unica voce, quotidiana e condivisa, dei fatti sociali di una comunità. Un patrimonio di testi meritevole di una lettura più profonda, capace di intercettare i molteplici livelli nascoste nell’immagine che, uscendo dalla sua fruizione bidimensionale, in una lettura onnicomprensiva e olistica è capace di restituire una piena immagine del tempo e della storia. “Se una foto mi piace, se mi turba, io v'indugio sopra. Che cosa faccio per tutto il tempo che me ne sto davanti a lei? La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che essa ritrae […] Se i miei sforzi sono dolorosi, se sono angosciato, è perché talora sono vicino al nocciolo, è perché ci sono: nella tale foto, io credo di scorgere i lineamenti della verità.”[2].

 


[1] Il Vagabondo delle stelle. Cinquant’anni d’immagini di Pippo La Cava fotoreporter, a cura di Geri Villaroel, Grafo Ed.,  Messina, 2012, p. 13.

[2] R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2003, p. 17.

 

 

Galleria Immagini: 

Galleria opere Pippo Lacava

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Courtesy Pippo Lacava; Grafo ed.
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